Colombia è un nome che evoca concetti forti, questioni tanto diffuse nel senso comune da riuscire difficilmente a scansare il rischio dello stereotipo, della realtà complessa liquidata con facili e immediate definizioni, semplici nomi appunto.
A questo nome è associamo quello del primo europeo che sbarcò ufficialmente nel nuovo mondo più di 500 anni fa, a questo nome associamo la questione mondiale del narcotraffico, in questo nome risuona tutto il paradosso di rivoluzioni popolari sognate nei passati decenni ed i cui approdi mai come in Colombia mostrano i loro aspetti più controversi.
Colombia è un nome che sembra esaurire tutto ciò che vuole dire nel nome stesso. Come il Santiago Nasar del romanzo di Màrquez, di cui conosciamo il destino di morte fin dalla prima riga, così a noi può sembrare di conoscere identità e destino di questo paese dal suo solo nome. Eppure, così come il destino segnato di Nasar ci permette di conoscere le infinite e discordanti verità dei suoi compaesani che ne ricostruiscono la vicenda, anche il nome Colombia non può raccontare le molteplici esistenze dei suoi abitanti, le distinte vite di ciascuno degli esseri umani che la popolano.
Se non è razionale credere che la vita di ciascuno non venga condizionata dalle grandi questioni, è altrettanto illogico pensare che l’esistenza di ognuno si riduca a quella di un burattino sul teatro dei grandi interessi, senza caratteristiche e sfumature proprie di un universo particolare, di un mondo segnato dal proprio ambiente, naturale o urbano che sia, dai suoi prodotti e dai suoi mestieri.
È alla ricerca di questi mondi particolari, delle esistenze private che li compongono, che mi sono addentrato nella Colombia quotidiana, dove incontrare la vita di persone comuni alle prese con i momenti più semplici del loro vivere. Per assistere al racconto della vita che si articola dietro i nomi, le categorie, le informazioni uniformanti.
E scoprire così che non di solo panico vive l’uomo.