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Addossato alla catena del Grande Caucaso, con vaste aree a cavallo di un massiccio che tocca vette oltre i 5.000 metri; lambito dal mar Caspio ad est, con spiagge per vacanze “caraibiche” di turisti per lo più russi, probabilmente cittadini di Mosca; affacciato a nord sulla steppa che si stende a perdita d’occhio; il Daghestan è la più grande delle repubbliche del Caucaso Settentrionale, nonché l’unica, in quest’area, a dipendere ancora direttamente da Mosca.

Sul suo territorio si gioca l’ultima partita tra Mosca ed i suoi competitori per il controllo della geopolitica energetica: la posta in palio sono le ricchezze custodite nel suo sottosuolo e le grandi infrastrutture per la loro commercializzazione.

Ma anche l’umanità che lo abita fa del Daghestan un luogo particolarmente ricco; esso è infatti una miniera di differenze di lingue e tradizioni, un puzzle di centinaia di gruppi con una propria storia secolare, fissata in mestieri, costumi, idiomi che non sono semplici inflessioni di una stessa lingua ma codici incomprensibili l’uno all’altro. Sono più di cento le etnie che nel corso dei secoli vi si sono stabilite, quindici quelle più numerose e storicamente riconosciute.

Per quanto etnicamente frammentato, il Daghestan è un paese a forte tradizione islamica. La corrente maggioritaria e più radicata è quella moderata e aperta del Sufismo, a cui si è contrapposta nell’ultimo decennio un’ala più fondamentalista e combattiva, che gli osservatori riconducono all’ordine dei Salafiti, per quanto questa identificazione venga rifiutata dai gruppi interessati.

Nel paese è in atto un conflitto che trova le sue origini in una lotta intestina a queste correnti dell’Islam, per il controllo delle nomine degli Imam e del mercato dei lasciapassare per la Mecca, da cui deriva un sistema di favori e scambi tra i diversi “potentati” che in questo modo si accaparrano complicità ed adesioni di intere comunità. Su tale conflitto si sono innestate le manovre di quei soggetti, non sempre facilmente identificabili, che si contendono il controllo di questa zona così strategica.La spirale di violenze che tutto ciò ha innescato, unitamente ai copiosi finanziamenti per l’amministrazione locale - vera e propria politica del “bastone e della carota” adottata da Mosca - hanno accresciuto a dismisura la distanza tra popolazione e classi dirigenti.

In un Paese in cui è comune incontrare donne splendidamente adornate regalare un sorriso, oppure intente a condurre personalmente la propria attività economica, per quanto familiare, dove dunque non si notano segni di un radicalismo islamico diffuso, è altrettanto diffusa la preoccupazioni per la propria sicurezza e per il futuro dei propri figli.

Quel che rimane, sulla superficie daghestana, è dunque una popolazione ricca di storia e tradizioni che tenta di accedere a quella ricchezza che pare scorrere, irraggiungibile, nelle correnti sotterranee dei moti geologici e degli intrighi di potere.